Ryder Cup (Final day)

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Ci sono giornate che vorremmo sempre ricordare, imprese che per come sono maturate ci piace rivivere attraverso immagini indimenticabili, storie da raccontate ai posteri per dimostrare come nello sport ad ogni livello il solo fatto di “crederci” a volte può rivelarsi fondamentale e decisivo più di qualsiasi condizione fisica e quando il giorno dopo, passata l’ euforia del momento, ci troviamo a mente fredda ad analizzare quanto accaduto, la parola che più ci rimbomba nella testa è “miracolo”

Serviva un miracolo dopo un venerdì e un sabato spesi a domandarci quali errori aveva commesso il capitano europeo Olazábal e sul come mai le palline degli americani entravano a velocità della luce direttamente in buca da ogni posizione del green, mentre quelle dei dodici europei, morivano a qualche centimetro dalla stessa. Nessuno avrebbe scommesso neanche un centesimo sulla possibilità di una rimonta. Troppe cose erano andate nel verso giusto per la squadra di Davis Love III. Tutte le mosse erano state azzeccate fin da subito, la decisione di mandare in campo tre rookie per esempio, la scelta delle coppie da schierare, la continua spinta emotiva dei 45 mila spettatori e perfino l’apporto di illustri “amici” sul campo, quali Michael Jordan e Michael Phelps era sembrata utile a spingere la squadra americana verso una vittoriosa cavalcata.Domenica, con un parziale di 10 a 6, sarebbe stata una festa, una giornata da godersi pian piano alle spalle dei maliconici europei, ingrigiti sul percorso mostruoso del Medinah.

Evitare una schiacciante sconfitta la missione domenicale degli europei. Partire forte nei primi quattro match in cui Olazábal aveva schierato i pezzi da novanta e poi salvarsi in qualche maniera con la restante parte di giocatori, tutti in pessima forma e con una condizione mentale al minimo. Al limite crederci, ma sottovoce, ritrovare orgoglio e cuore, motivazioni quasi mistiche, giocare nel nome e in memoria dell’ amico Severiano “Seve” Ballesteros, compagno di tante edizioni della Ryder Cup, scomparso nel maggio del 2011. Un Severiano cucito sulle maniche dei maglioncini da gara come un’ icona a cui votarsi, come un tentativo di ritrovare uno spirito di gioco assente nei primi due giorni.

Via allora sul tee della prima buca nella bolgia di cori americani. Bubba Watson pronto ad una domenica di applausi e autografi da firmare di fronte ad un Luke Donald “di pietra”. Diciassette buche dopo Bubba dovrà stringere la mano all’ inglese in un match dominato dall’ europeo. Il secondo punto della giornata lo sigla invece Rory McIlroy. Arrivato dieci minuti prima della sua partenza in tutta fretta (aveva frainteso l’ orario) dopo qualche colpo trova la condizione perfetta. Il numero uno del ranking mondiale estrae dalla sacca colpi e approcci al green quasi al limite del possibile. A lui si inchina il fenomeno (nelle prime due giornate) Keegan Bradley alla 17.

Al cardiopalma le due partite vinte invece dai leoni di Sua Maestà, gli inglesi Ian Poulter e Jastin Rose. Due capolavori ottenuti dopo 18 buche di sofferenza per rimanere aggrappati rispettivamente agli americani Webb Simpson e Phil Mickelson determinati quanto mai a uscire vincitori. Due birdies al par 4 della diciotto però spostano l’ ago della bilancia a favore dei due europei monumentali ieri come in tutte le tre giornate. Serve adesso che anche nelle partite dietro succeda qualcosa di imprevisto, come nel quinto match per esempio. Paul Lawrie 43enne scozzese, passato quasi inosservato tra le sconfitte di venerdì e sabato, domenica sigla un cammeo alla carriera infilando 4 birdies e 1 eagle. Alza la palla alla buca 15 vittorioso sul frastornato Brandt Snedeker vincitore della FedExCup 2012.

Da quel momento, con 5 punti filati per gli europei, inizia un’ altra Ryder Cup. Quella della domenica in cui le palline pesano qualche grammo di più buca dopo buca e dove il cuore e l’orgoglio contano più di un pubblico ormai più preoccupato a non perdere che a festeggiare. La Ryder Cup di Sergio García quasi battuto sul green della 16 da un putt che sborda dell’ americano Jim Furik e risorto vincente con due birdies alla 17 e alla 18 o quella del criticato e abulico Lee Westwood ritrovatosi capace di annichilire un “cecchino dei greens” come Matt Kuchar dopo sole 16 buche e nonostante un putt di qualche centimetro costretto ad imbucare, in maniera poco sportiva, dal malcapitato americano. Adesso nulla spaventa la squadra europea, neanche i tre punti americani siglati da Dustin Johnson, Zach Johnson e Jason Dufner. Adesso tutto è possibile, anche credere nei miracoli. Sul 13 a 13 infatti basta solo un punto all’ Europa per mantenere la coppa. Un punto che deve e può arrivare dalle ultime due partite in campo. Tutto si gioca in quei match adesso, tutto è sulle spalle di Martin Kaymer e Francesco Molinari.

Il tedesco Kaymer, oggetto misterioso nei primi due giorni, improvissamente ritrova sicurezza e motivazione. Il suo avversario Steve Stricker appare in difficoltà, serve solo aspettare che sbagli e non commettere errori gratuiti come quelli già commessi alla 13 e alla 15 che hanno riaperto ed allungato il match. Alla difficile 17 un approccio da fuori green di Stricker finisce lungo alla buca. E’ il momento giusto e con un par il tedesco si porta 1 up. Si passa sul tee della 18, palla in fairway e pedalare. Secondo colpo al green dal bunker non bellissimo, putt di avvicinamento. Con un par è fatta. Pressione sulle spalle inimmaginabile. Putt da un metro e mezzo che sembra non finire mai. “Tock” palla in buca, è 13 a 14, è la Ryder ancora una volta. Tutti seduti gli americani, gioiscono amici, mogli e fidanzate sul campo, scoppiano pianti e urla di giubilo, si guarda al cielo, si cerca la risata di “Seve”. Woods dà il via ai festeggiamenti europei alzando palla alla 18 e concedendo il mezzo punto a Francesco, è bandiera bianca.

“Come on” Europa, arrivederci a Gleneagles America, la coppa resta nel vecchio continente ancora per due anni.

 

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