East Awards

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Best Player: Lebron James

Niente da dire: quest’anno il migliore è stato lui. E a dimostrarlo non sono solo le cifre quanto, e soprattutto, la determinazione e la forza mentale con cui ha guidato i suoi alla vittoria finale. Senza Bosh e con Wade a tratti inconsistente, si è caricato sulle spalle la sua squadra andando a prendersi il tanto agognato primo anello.

Ha giovato a questo scopo l’eliminazione precoce di Chicago, causa il gravissimo infortunio a Derrick Rose (degno rivale di James come best player ma troppo solo a differenza del numero 6 di Miami), ma resta la convinzione che nemmeno i Bulls sarebbero riusciti a fermare questi Heat. 

Best Team: Miami Heat     

Anche qui, nulla da dire. Il tanto criticato coach e il tanto criticato “supporting cast” questa volta non hanno tradito. Miami ha dimostrato di essere la squadra più forte in questa stagione.

Hanno saputo far fronte alle difficoltà (sotto 2-1 con i Pacers e con gara 4 ad Indiana, sotto 3-2 con i Celtics e con gara6 aBoston) e alle incomprensioni interne (Spoelstra-Wade nella serie con i Pacers), e anche quando hanno dovuto fare a meno di Bosh, gli Heat hanno sempre trovato buone prestazioni dai vari Chalmers, Battier e Miller (che ha letteralmente bombardato i Thunder nella decisiva gara 5 di finale).

E con un Lebron così (impressionante gara 6 al Garden contro i Celtics), è arrivato anche il secondo titolo nella storia della franchigia.

Meritano una citazione i Boston Celtics, dati per spacciati da molta gente e giunti, non senza fatica, alla finale di conference dove però, in vantaggio 3-2, non sono riusciti a chiudere la serie in casa e hanno perso contro la miglior versione di Lebron James vista finora sui parquet NBA. 

Biggest disappointment: Orlando Magic

In parabola discendente, sono arrivati al capolinea con la loro star Dwight Howard, protagonista di una “telenovela” infinita. Il centro dei Magic, la stella che li aveva guidati alla finale nel 2009 (persa con i Lakers) e ancora alla finale di conference nel 2010, è stato protagonista di diversi siparietti con dirigenza e allenatore. Alla fine a farne le spese sono stati tutti quanti: coach Van Gundy e il gm Otis Smith sono stati licenziati a maggio e ora Howard ha chiesto per l’ennesima volta di essere ceduto.

Una stagione che ha visto comunque i Magic qualificarsi per i playoff, vincere la prima partita in casa di Indiana, salvo poi perdere le successive quattro e tornare mestamente a casa. Tutto questo senza Howard (fin quando è stato in campo Orlando era attorno alla terza/quarta piazza nella eastern) che si è infortunato nel finale della regular season.

Sarà compito del nuovo gm Rob Hennigan cercare di ricavare il meglio dalla cessione di Howard (che vorrebbe andare ai Brooklyn Nets) e di ricostruire una squadra praticamente da capo, considerando che Jameer Nelson è free agent e che sul cap pesano troppi contrattoni (J-Rich e Turkoglu su tutti).

Menzione per i New York Knicks che anche quest’anno sono usciti prematuramente dai playoff. Anche in questa stagione si sono ripresentati i dubbi sulla coesistenza del duo Anthony-Stoudemire e a farne le spese è stato coach D’Antoni, rimpiazzato da Woodson. 

Biggest surprise: Indiana Pacers

I Pacers si sono rinforzati ad inizio stagione con West e Hill e anche in corsa con l’acquisto di Barbosa.

Con una grandissima seconda parte di stagione (uno dei migliori record dopo l’all star game) si sono arrampicati fino alla terza piazza della eastern dietro alle irraggiungibili Chicago e Miami.

Nei playoff hanno avuto la meglio degli Orlando Magic e sono stati sul 2-1 con il fattore campo ribaltato a proprio favore contro i Miami Heat, salvo poi crollare sotto i colpi di Lebron e soci.

Indiana ha fatto vedere un buon gioco e soprattutto un’ottima difesa. A questo proposito, è stato molto buono il lavoro di coach Vogel.

Menzione anche per i 76ers che, aiutati anche dall’infortunio di Rose, hanno eliminato Chicago e poi hanno portato i Boston Celtics a gara 7, grazie alla loro maggior freschezza e al buon sistema difensivo di coach Collins. 

Best rookie: Kyrie Irving

Prima scelta assoluta all’ultimo draft, ha dimostrato di essere già pronto per l’NBA. Ad inizio anno c’erano alcuni dubbi sulla sua tenuta (ha saltato 15 gare ma nulla di grave) e c’era chi gli preferiva Knight o Walker (per rimanere nella Eastern) ma il nuovo play dei Cavs ha dimostrato di valere la prima scelta e, affiancato da altri giocatori di buon livello, potrà tra qualche anno portare nuovamente Cleveland ai playoff.

Merita una citazione anche il play Norris Cole, scelto dagli Heat, che ha mostrato a tratti buone cose. 

Best coach: Doc Rivers

A sentire i critici, i Boston Celtics sono vecchi da due o tre stagioni e ogni anno pare sia l’ultimo dei Big Three (Allen, Pierce, Garnett).

Coach Rivers è riuscito a tirare fuori il meglio da questa squadra, rispolverando Garnett da centro e inserendo il giovane Avery Bradley come guardia titolare (con lo spostamento di Allen in panchina).

L’assenza dell’esterno contro gli Heat si è fatta sentire, anche perché ha costretto Ray Allen a partire titolare. Un tiratore come il numero 20 dalla panchina era un lusso e a giovarne era tutta la squadra.

Nonostante tutto, questi Celtics sono arrivati ad un passo dalla terza finale NBA nell’era dei Big Three e buona parte del merito va al coach che ha saputo motivare nuovamente questa squadra di campioni  che ora pare però davvero giunta al capolinea. O forse no?

Menzione anche per Spoelstra che si è finalmente tolto “la scimmia dalle spalle” vincendo il suo primo anello e per i già citati Vogel e Collins.