La maledizione dell’MVP: il LeBron James che conferma la regola.

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Peggio di New York e Indiana, di Thunder e Celtics, peggio dell’infortunio di Bosh, delle triple doppie di Rondo e dei quarti quarti di Kevin Durant, peggio dei crampi e del pubblico di mezzo mondo riunito nel tifo di ogni squadra affrontasse i suoi Heat, l’avversario più forte, maligno e storicamente imbattibile che LeBron James ha dovuto affrontare è la maledizione dell’MVP.

Chiaramente non c’è nessuna spiegazione soprannaturale dell’evento, ma ben più di un fattore tecnico, se ogni anno ci si ritrova alla fine della stagione NBA e NFL (non si prende in considerazione l’MLB che ha un modo diverso di assegnare il titolo di MVP) a parlare di fallimento della squadra che presentava in campo il giocatore ritenuto il più forte della stagione. Nel corso del nuovo millennio James è soltanto il secondo giocatore, su ben 25 premiati col titolo di MVP dalle due leghe più importanti dello sport professionistico americano, a vincere il titolo a fine stagione, con conseguente titolo di MVP delle Finali o del Super Bowl. L’unico precedente è rappresentato da Tim Duncan, con gli Spurs di Popovich versione 2002-03, mentre per cercare un MVP NFL alzare il Lombardy Trophy bisogna tornare indietro fino al 30 gennaio 2000 quando Kurt Warner porta alla vittoria i Saint Louis Rams, tra l’altro arrivati a una yard da perdere la partita. Nello stesso anno è Shaquille O’Neal a dominare lega, playoff e finali, vincendo il titolo di MVP sia della stagione che delle finali, portandosi chiaramente anche a casa l’anello.

Risultati nei playoff degli MVP della stagione regolare NFL

Errore nella valutazione di chi sceglie gli MVP o mancanza di supporto della squadra al campione? Difficile dirlo, anche per la grande quantità di casi da analizzare, ma è chiaro come in nessuno sport di squadra un unico giocatore possa vincere da solo le partite, anche se alcuni giocatori hanno dimostrato di poter essere decisivi anche quasi da soli, soprattutto però solo in certi momenti della partita e soprattutto nei playoff, quando il titolo di MVP della stagione è già stato assegnato. Inoltre i playoff tendono a premiare, soprattutto in NFL con la sfida secca, la squadra con la mentalità, la forma fisica e anche la fortuna giusta, e spesso questi fattori coincidono con una regular season giocata in tranquillità e senza strafare, magari chiusa in run positiva e in crescita. È questo il caso dei Packers del 2010 e dei Giants freschi vincitori del Lombardy: in entrambe le stagioni la squadra dominatrice della stagione con in campo l’MVP, Patriots di Brady e gli stessi Packers di Rodgers post Super Bowl, hanno concluso la loro corsa playoff alla prima partita, dimostrandosi stanche e prevedibili nel loro appellarsi al loro miglior talento, mentre squadre più improntate sulla coralità, con la mente sgombra da pressioni e la forma fisica in crescita, andavano a vincere il titolo.

È chiaro come, soprattutto nel Football, dove in campo scendono oltre 30 giocatori a partiti, divisi in 3 fasi di gioco, un giocatore non può essere decisivo da solo e i suoi risultati sono quindi molto influenzati da una squadra di non primissimo livello (come Steve McNair nel 2003 o Peyton Manning nel 2008) o arrivata ai playoff in difficoltà fisiche (Brady 2009 e Rodgers 2012 citati prima), oltre che dai colpi di fortuna e sfortuna (ancora Brady, versione perfect season sfumata nel 2007 con la clamorosa ricezione di David Tyree, non proprio un MVP della stagione). In NBA al contrario, dovrebbe essere molto più difficile stravolgere i valori delle squadre nei playoff (non a caso nessuno ha mai vinto il titolo con seed #7 e #8), inoltre spesso il titolo di MVP viene assegnato a giocatori delle migliori squadre della lega (mai sotto il seed #2 dal 2000 a oggi). Nonostante ciò solo 2 giocatori su 12 si sono confermati, e solo altri 2 sono arrivati a giocarsi le NBA Finals (Allen Iverson nel 2001 e Kobe Bryant nel 2008), allora come spiegare questi fallimenti, in uno sport dove l’MVP gioca 40 minuti a partita su 48, facendo entrambe le fasi?

Risultati nei playoff degli MVP della stagione regolare NBA

Anche qui si può mettere sul piatto la forma fisica, fondamentale in qualsiasi sport, e la teoria è rafforzata dal fatto che il fresco vincitore dell’anello, si è confermato dopo essere stato nominato MVP in una stagione accorciata dal lockout, quindi meno dispendiosa per un giocatore come LeBron James, che nelle Finals 2011 era sembrato un po’ a fine carburante. C’è però da sottolineare come eliminazioni eccellenti, come ad esempio quella dei Mavs di Nowitzki al primo turno nel 2007 o dello stesso LeBron e dei suoi Cavs contro Boston nel 2010, non sono imputabili a cali di forma, ma a prestazioni deludenti delle superstars. Il basket che si gioca in post season è un altro sport rispetto a quello della stagione regolare, e le statistiche accumulate contro squadre molto scadenti o in scampagnata fuori città, non contano più nulla quando le maglie delle difese si stringono e ogni partita è giocata come una finale e preparata al meglio dagli allenatori. In questa situazione avere l’MVP in squadra può diventare addirittura uno svantaggio: tutti i giocatori hanno un compagno su cui scaricare le responsabilità, mentre lo stesso ha il mirino della difesa avversaria addosso, ed ecco che una delle migliori due squadre della lega in stagione diventa mediocre e perdente.

La situazione di quest’anno non può certo smentire questa versione, secondo cui il titolo di MVP è un peso tattico e psicologico per la squadra, perché la vittoria degli Heat è nata proprio da una situazione tattica nuova e abbastanza casuale: colui che aveva vinto il titolo di MVP in un ruolo, il #3, si è ritrovato, causa infortunio di Bosh, a giocare da #4 e a dominare in quel ruolo, allargando il campo e consentendo un gioco molto più fluido in attacco ai suoi. Non ci sarà mai la controprova, ma è possibile che un James riproposto da #3 avrebbe impattato contro la zona di Garnett e i Celtics finendo ancora una volta a casa vittima della maledizione dell’MVP. La trovata tattica obbligata gli ha permesso invece di evitare le trovate difensive di una squadra esperta, abituata mentalmente a giocare meglio nei playoff e con le responsabilità molto ben distribuite tra le superstar della squadra, ma non permette di affermare che la squadra dell’MVP sia la favorita al titolo, proprio a causa della presenza del presunto miglior giocatore della lega. Presunto perché è difficile stabilire se sia più forte un dominatore delle stagioni regolari come Peyton che ha sempre o quasi fallito ai playoff (4 volte MVP, solo un Super Bowl vinto, in un altro anno tra l’altro) o Eli Manning, considerato da tutti il fratello scarso per le stagioni molto altalenanti, che ai playoff non sbaglia quasi mai una partita (nessun titolo di MVP, due Super Bowlvinti da miglior giocatore e miglior record in percentuale nei playoff tra i giocator in attività).

Ecco perché il tabù sfatato quest’anno va in verità a riconfermare come sia più difficile vincere il titolo dopo esser stati nominati migliori giocatori della stagione regolare, forse anche per la poca lungimiranza di chi assegna i premi. Ma alla fine ci piace così, gli MVP, come le previsioni, sono fatti per essere sbagliati.