Miami: L’anno della svolta?

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Off-season Champs così titolava un giornale di Miami all’indomani di una free-agency e di un draft super aggressivi da parte dei Dolphins che erano riusciti ad assicurarsi giocatori del calibro di Mike Wallace, Brandon Gibson, Dannell Ellerbe, Dustin Keller, Tyson Clabo, Brent Grimes e Djon Jordan.

Messi anche sotto pressione dalle recenti vittorie nella NBA degli Heat e da diverse annate deludenti il proprietario Stephen Ross ed il GM Jeff Ireland hanno scelto sicuramente il momento perfetto per rompere il salvadanaio e provare a dare una sferzata ad un’organizzazione che da troppi anni langue nella mediocrità.

Le recenti disavventure dei Patriots, dominatori della divisione da oltre un decennio, autorizzano i tifosi di Miami a sognare che la premiata ditta Belichick-Brady sia al capolinea pronta ad abdicare in favore della franchigia della Florida. Gli altri avversari, infatti, non possono spaventare. I Jets sono in confusione ed in crisi d’identità e ci rimarranno fino a quando il pessimo Rex Ryan non sarà licenziato, mentre i Bills sembrano aver imboccato la strada giusta ma c’è ancora un po’ di strada da fare prima di vedere la luce in fondo al tunnel.

Una vittoria divisionale non solo porterebbe entusiasmo e prestigio ad una franchigia desiderosa di riscatto ma sarebbe anche una sorta di redenzione per un’organizzazione troppe volte spernacchiata, a ragione, negli ultimi anni.

Le disavventure più clamorose del front office di Miami cominciano all’inizio del 2011 quando ormai nessuno crede più che Sparano possa essere l’allenatore giusto per la franchigia ma nonostante questo, per mancanza di un vero piano alternativo, non viene licenziato. Miami improvvisa un corteggiamento serrato nei confronti di Jim Harbaugh, ormai in dirittura per firmare con San Francisco, cercando di lusingarlo con un’offerta da circa 8 milioni di dollari a stagione.

Peccato che però nessuno abbia ancora licenziato Sparano e la NFL intima in maniera ufficiosa ma molto chiara a Miami di lasciar perdere per evitare di essere sanzionata dalla lega a causa di questo comportamento troppo disinvolto.

Senza scordare gli schiaffi ricevuti l’anno successivo. Peyton Manning che non si dichiara interessato a giocare per la franchigia della Florida ed il famoso No one wants to play for Miami pronunciato dalla safety free-agent Ryan Clark convinto che a capo del management di Miami ci sia una persona poco competente (Ireland). Senza dimenticare il caso di Jeff Fisher che ha preferito andare ad allenare i Rams nonostante i soldi, il prestigio ed il corteggiamento serrato di Miami. Anche lui poco convinto del progetto.

Alla fine è arrivato lo sconosciuto e poco blasonato Joe Philbin, l’unico che, non avendo mai fatto l’allenatore capo al college o nella NFL, non aveva il pedigree e la convenienza per opporre l’ennesimo rifiuto. Per fortuna non tutti i mali vengono per nuocere. Da quel punto in poi i Dolphins sembrano aver recuperato un po’ di lucidità con l’arrivo via draft del QB Ryan Tannehill ed un’identità di squadra grazie ad un po’ di ordine e alle idee portati dal nuovo allenatore.

Al termine della scorsa stagione, Miami acquisisce finalmente la consapevolezza che la luce in fondo al tunnel è dietro l’angolo e decide di cogliere il momento con massiccia infusione di talento. Tuttavia che tutti questi nuovi arrivi corrispondano con una stagione all’altezza delle aspettative è tutto da dimostrare. In particolare ci sono alcune mosse di mercato che qualche dubbio lo sollevano.

In primis c’è sicuramente la partenza dell’OT Jake Long che non è stata dettata solamente dai diversi infortuni avuti dal giocatore negli ultimi due anni, ma che ha anche un alto valore simbolico.

Non averlo trattenuto in parte significa aver chiuso anche con un recente “doloroso” passato (quello di avere scelto lui nel 2008 al posto di Matt Ryan) per cercare di cominciare un nuovo capitolo. Tuttavia non convince moltissimo la scelta di Ireland di voler affidare la protezione del blind side a Jonathan Martin che ha fatto moltissima fatica nel finale della stagione scorsa in quella posizione.

Miami tuttavia aveva una chance per gestire meglio la questione linea offensiva. Nel draft di Aprile, Ireland si è mostrato aggressivo, come in free-agency, andando a prendersi il pick numero 3. Molti avevano immaginato che quella mossa fosse funzionale all’acquisizione dell’OT Lane Johnson, e quest’ultimo, benché ancora un po’ acerbo, avrebbe rappresentato un pick meno cervellotico rispetto a quello del DE Djon Jordan. Certamente non un need così stringente per Miami.

Altra mossa molto rischiosa è stata quella di coprire di soldi il WR Mike Wallace.

Ci sono perplessità di carattere comportamentale e tecnico. Wallace viene da una stagione a Pittsburgh non troppo brillante, dove non ha saputo giustificare le sue pretese per un contratto monster con delle prestazioni adeguate.

Al di là di questo Wallace pare essere un giocatore che da il massimo in un attacco verticale dove ha la possibilità di sprigionare tutta la sua velocità, non sembra un fit così ideale in una WCO e soprattutto per un QB come Tannehill che è al suo meglio nel lanciare sul corto e sul medio.

La storia della NFL ci insegna che non sempre i grandi nomi fanno grandi le squadre (basta andare a chiedere agli Eagles con il famoso dream team), quello che conta di più sono le idee e la lucidità nel tradurle in azioni coerenti. Se a Miami sono stati così lucidi e lungimiranti, lo scopriremo quest’anno. Qualche dubbio è lecito averlo.