Perchè difendo Manning

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Domenica 2 febbraio Peyton Manning aveva la chance di entrare definitivamente nella storia: aveva infatti la possibilità di vincere il suo secondo Superbowl. Che non è impresa da poco, ma neanche da così pochi. La differenza però in questo caso era evidente: Manning sarebbe stato il primo Qb a vincere l’anello da titolare con due franchigie diverse. Inoltre, visto che se giocherà almeno un’altra stagione, probabilmente demolirà tutti i record di Brett Favre (td pass, completi e yard lanciate), un secondo anello avrebbe probabilmente consentito ai suoi fan di avanzare pretese (più o meno fondate) sul suo essere il fantomatico «Goat», il più grande giocatore di tutti i tempi.

L’ennesima caduta è stata invece fragorosa, per il modo in cui è maturata (un disastroso 8-43) e per il modo in cui Manning ha giocato (disastroso è l’aggettivo giusto anche in questo caso). Ovvio che di fronte a questo fallimento, anzi ennesimo fallimento, che porta il suo bilancio a un mediocre 11-12 in post season, anche chi lo difende a spada tratta possa porsi dei due dubbi. Perché la domanda che sorge spontanea a questo punto non è più: «Manning è un vincente?» No, perché quella più azzeccata ormai sembra un più netto e deciso, «Manning è un perdente?». Ma la risposta, in ultima analisi, resta comunque un «No».

Perchè no, Manning non è un perdente, e non è nemmeno un codardo né un coniglio, e certamente non è un giocatore che non sappia come si fa a vincere. Altrimenti non avrebbe portato a casa 167 partite in stagione regolare e non avrebbe trascinato le sue squadre ai play-off 13 volte in 15 stagioni disputate.

No, il problema di Manning non è la paura. Il problema di Manning è l’incapacità di essere davvero perfetto, come invece lui aspira ad essere. Perché in realtà Manning non ha mai scosso la testa, come sostiene qualche suo superficiale detrattore, perché un suo compagno ha droppato un pallone, o perché nel caso di intercetto volesse scaricare sul compagno la responsabilità di aver corso male una traccia. La verità è un’altra, la verità è che Manning non si capacita, letteralmente, che le cose non vadano come lui si aspetta.

Basta pensare alla recente foto in cui, mentre in piscina si sottopone a una terapia acquatica a una caviglia, indossa il casco per ascoltare le chiamate del suo OC mentre studia gli schemi con sull’Ipad: forse basterebbe questa immagine per dipingerlo come una specie di autistico del football. Perché quello, in sostanza, Manning è: una specie di ossessionato che spende la sua vita nello studio e nel perfezionamento del gioco.

Un gioco che ha portato alle estreme conseguenze, nel perseguimento della perfezione. E, conseguentemente, una perfezione che l’ha portato a costruirsi una carriera numericamente impressionante (e forse imbattibile per chiunque), che lo porterà a infrangere tutti i record, che gli ha consegnato 5 Mvp della lega. Ma che a gennaio non funziona, proprio non funziona. Ormai è evidente che tutta questa perfezione, nei play-off non paga, non è determinante, non è decisiva. A gennaio servono (anche) altre armi, e Manning, bisogna dirlo, evidentemente non le ha.

In definitiva Manning sembra il carro armato tedesco King Tiger, un vero prodigio della tecnica, impantanato nel fango della Russia. Manning sembra una perfetta macchina da guerra che perde (quasi) tutte le guerre. E molto probabilmente non ha nemmeno capito il perché.